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Carnovali Giovanni, detto Il Piccio

Montegrino Valtravaglia, VA, 1804 - Cremona, 1873

"Agar"

Olio su tela, cm 71x57

Nel 1835, o poco prima, il Piccio ebbe commissione da alcuni mecenati, di una tela sui casi di Agar, da eseguire per la parrocchiale di Alzano. La tela, con incredibile esempio d’incontentabilità, fu da lui consegnata e collocata nella chiesa solo il 23 giugno 1863. Il Carnovali, meditando il soggetto, inizialmente immaginò un’“Agar scacciata da Abramo”, proprio come si vede in due schizzi pieni di sentimento drammatico, oltre alla stupenda, grande opera realizzata ad olio sul finire degli anni Trenta, con il titolo di Il ripudio di Agar; dopodiché fermò il concetto solo ed esclusivamente sull’“Agar nel deserto”. Il quadro, una volta compiuto, fu messo in mostra, destando perplessità di giudizio presso la critica retrograda e bigotta del tempo, specialmente a causa dell’originalità dello stile, che offendeva le convenzioni del gusto e le false dottrine che a quel tempo si nutrivano nei confronti delle opere di natura biblica. Infatti nacquero polemiche tanto vivaci da convincere la Fabbriceria della chiesa di Alzano a rifiutare l’opera. L’ingegner Daniele Farina, grande mecenate bergamasco, si affrettò a comprarla pagandola l’impressionante cifra di seimila lire. Nell’ improntare il soggetto, il Piccio volle rimanere fedele al testo biblico della “Genesi, cap. XXI”, pur andando incontro alle contaminazioni degli effetti romantici che si stavano sempre più affermando a metà del secolo XIX, infatti la scena immaginata dal pittore solo ad un primo impatto risponde alla narrazione biblica, anche se, ormai comunica un’impressione magica di verità e di grandiosità aerea. Tutte le luci sembrano in movimento, e in movimento sembra la scena tutta quanta. Ma la critica insorse; Pasino Locatelli, interpretando un pensiero bigotto di forte provenienza accademica, così scriveva il luglio del 1863:........non vedo la scena disposta in armonia colle esigenze estetiche del fatto........; ma Giacomo Trécourt, rispondendo da Pavia, notava:.........nessuno fra i moderni artisti seppe mai dipingere un Angelo siccome questo, il quale rende tutta la celestiale bellezza pur tuttavia conservando il carattere della virile venusità e per ciò per nulla assomigliante a certe sciocche creature né femmina né maschio, peggio degli ermafroditi del paganesimo, non aventi né la molle aggraziatezza della donna e nemmeno la robusta formosità dell’uomo; bastarde e manierate creazioni di fantasie lascive e impotenti; le quali, anziché il concetto divino, accusano la libidine del pittore, che farebbero arrossire la stessa divinità, ove ne vedesse circondato il suo trono; non angioli, insomma, ma avanzi della combusta Gomorra. Sempre il Trècourt nel descrivere la figura di Agar rilevava che: ”…la morbidezza e quasi il palpito delle carni, la fluidità delle vesti docilmente pieghevoli ad assecondare i movimenti del corpo e tutta la figura gli sembrava come disegnata dal Parmigianino in uno dei migliori momenti del suo estro creatore”; quindi esclamava: ”…quanto studio, quanta fatica e quanto amore sono celati sotto questa esecuzione sciolta; non al ristretto lume del cupo laboratorio, ma all’aria aperta anzi nel deserto stesso sembrano copiate quelle maestose ed elegantissime figure; qui nessuna ombra è abbuiata dal riflesso delle opache pareti e qui spazia dappertutto il vago aere e vi brilla. “A me sembra”, proseguiva il Trècourt, “che il Piccio in questo capolavoro abbia superato una delle più grandi difficoltà che l’arte presenti, quella cioè di far rilevare gli oggetti senza la risorsa delle ombre; come il Carnovali abbia saputo conseguire con tanta efficacia questo effetto io nol saprei con fermezza affermare, ché il genio fortificato dallo studio indefesso cammina per delle vie a sé solo accessibili: di qui l’ammirazione ch’io sento verso quel grande artista”. Ciò che fin qui è stato detto altro non vuol essere che una doverosa premessa nei confronti del dipinto in questione, denominato con estrema superficialità “Maddalena” dall’impaginatore dell’edizione monografica “Giovanni Carnovali detto il Piccio” edita nel 1946 da Ciro Caversazzi. Infatti chiunque abbia dimestichezza con la grande pala di Alzano, non poteva e non può non notare come questo eccezionale olio altro non sia che, per l’affinità di posa, e per la somiglianza della modella, uno stupendo studio speculare dell’Agar. Oltre alla posizione della testa della donna, infatti, si riscontrano puntuali corrispondenze nell’acconciatura del capo e nelle vesti. La stessa resa del tratto è assolutamente affine all’opera definitiva di “Agar nel deserto”, capolavoro che, dopo varie vicissitudini, troviamo definitivamente collocato nella chiesa parrocchiale di Alzano. Proprio con l’Agar nel deserto, ha inizio, in Italia, un nuovo modo di concepire un’opera d’arte, assolutamente libero e ribelle; infatti il fare del Carnovali, ai più sembrerà più rozzo per non dire incompiuto, al punto da ritenerlo, erroneamente, contrario a qualsiasi regola canonica della pittura. Tutto ciò che, fino a quel momento si dimostrava importante, e lo era solo in apparenza, non lo sarà più; per cui la ricerca del dettaglio, unita ad una certa qual raffinatezza, lascerà il posto a capacità più espressive, che in seguito sapranno trasformarsi nelle muse ispiratrici del Simbolismo. L’attenta disamina dell’Agar nel deserto, logica conseguenza di Il ripudio di Agar, ci permette dunque di capire appieno la magistrale e soprattutto innovativa lezione d’arte del Piccio; a cominciare dalla desolante rappresentazione del paesaggio desertico, che vuol significare un chiaro sintomo di decadenza della società, quest’ultima rappresentata, senza essere vista dall’egoistica gelosia di Sara nei confronti di Agar e di suo figlio Ismaele. Il giovane è dipinto in modo sommario, praticamente sfatto, e ci appare stremato dalla sete, quasi moribondo, in quanto privo di qualsiasi fonte di saggezza; anche qui con una chiara allusione alla mancanza di fede dovuta alla giovane età, dunque non ancora entrato nella fase dell’apprendimento. Solo Agar, sorretta da una convinta speranza nella misericordia di Dio, appare finemente dipinta in tutto il suo splendore, chiara conseguenza di un’incrollabile fede che ci viene confermata dallo sguardo altamente mistico, che vediamo concretizzarsi stupendamente sulla tela, attraverso una magistrale rappresentazione del volto, in special modo degli occhi, rivolti al cielo in fervida preghiera. Il potere dell’evocazione emotiva, proprio a partire da questa eccezionale opera, via via andrà sempre più ad accostarsi alla poetiche simboliste del “Realismo Sociale” che, a fine secolo, andranno a diffondersi in tutta Europa con lo scopo di denunciare l’urgenza della questione sociale. Emanuele Motta

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