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Bianchi Mosè

Monza, 1840 - Monza, 1904

"Nel Duomo di Monza"

Olio su tela, cm 49x35
Firmato e datato in basso a destra: “Mosè Bianchi ‘72”.
Datato: 1872

Il dipinto, datato dall’autore “’72”, è cronologicamente vicino al più noto Una buona fumata, assegnabile al 1872/73 e appartiene al periodo in cui Mosè Bianchi riprende la fortunata tematica dei chierichetti, precocemente iniziata con La vigilia della sagra nel 1864 che è la sua prima, importante prova nella riforma della pittura di genere. A prima vista, nell’opera in questione sembrerebbe assente la vena ironica che s’insinua in gran parte della produzione generistica del pittore monzese e si sarebbe inclini ad avvicinarla piuttosto agli studi degli interni di chiese, sempre considerati come spazi esteriori in cui si esprime il sentimento religioso delle figure che li popolano. E’ il caso di I fratelli sono al campo (1869) e di Nel duomo di Monza (1871/72). Nel solido impianto della sezione del coro, in larga parte ingombrato dal pesante leggio su cui poggia il messale rilegato in verde, il chierichetto che regge il grande libro rosso accostato alla smagliante cotta bianca, realizzata con la maestria e la scioltezza dello stile maturo di Mosè Bianchi, sembra guardare con soggezione al grande libro che sta sopra la sua testa. Non c’è nel giovanetto l’atteggiamento scanzonato presente in Una buona fumata, né quello rilevabile nel più tardo Ritorno dalla sagra (1887). E’ noto dalle testimonianze di Giulio Pisa (1906), riprese da Guido Marangoni (1924), che gli entusiasmi risorgimentali di Mosè Bianchi ebbero vita breve. Arruolatosi in un battaglione di Cacciatori delle Alpi durante la seconda guerra di indipendenza “per la sua indisciplinatezza passò buona parte di quel tempo agli arresti e un’altra parte la occupò riempiendo di schizzi e di caricature foglietti ed albums”. In questo luogo della memoria che il duomo di Monza rappresenta per il pittore, si esprime forse la disillusione per la sua esperienza militare e per la stessa conclusione della seconda guerra d’indipendenza che vide l’Austria cedere la Lombardia alla Francia con la pace di Villafranca. Non può infatti sfuggire a chi osservi con attenzione questo magistrale olio che, accanto alle note del tricolore, concluso dallo sguardo del chierichetto che collega il bianco al verde, risaltano con evidenza il blu e il rosso delle coste dei volumi appoggiati sulla base del leggio, che rendono chiara l’allusione alla Francia. Si tratta di una critica lieve che allude con finezza alle delusioni provocate in tanti patrioti dal modo in cui si era realizzata l’unità d’Italia e sceglie per questa sua riflessione malinconica la cornice della giovinezza dell’artista, il duomo di Monza, arrivando forse ad autorappresentarsi nello stupore perplesso del chierichetto. E’ questo un tratto che avvicina Mosè Bianchi alle convinzioni, oltre che ai modi stilistici, della Scapigliatura, ma al tempo stesso lo differenzia per la pacatezza della sua critica ironicamente allusiva, una critica che rivela e conferma il privilegio dell’arte rispetto alla politica, sempre sostenuto con fermezza dal pittore, profondamente persuaso di dover servire il suo paese con l’arte piuttosto che con la guerra. E.Motta

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